Celebrare la settimana di preghiera per l'unità dei cristiani per ritrovare la speranza

Celebrare la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani nell’anno giubilare per ritrovare la Speranza con la S maiuscola, e cioè la certezza che la preghiera del Signore perché “tutti siano una cosa sola” (Gv. 17,21) sarà esaudita. Anzi nella fede pasquale – formulata fin dal Concilio di Nicea nel 325 – è già esaudita. “Credo la Chiesa una…”. Si tratta di rifare, come cristiani che hanno in comune quello stesso credo (formulato a Nicea e a Costantinopoli), un atto di fede. “Credi tu questo?” è il titolo di quest’anno. Quell’atto di fede che, come nell’episodio del vangelo da cui è tratto (Gv. 11, 26) ha rivitalizzato Lazzaro e che può dare nuova vita alle nostre Chiese.
Il contesto, in cui oggi ricordiamo quel Credo della Chiesa ancora indivisa, non è per niente favorevole all’unità dei cristiani. Nel nostro emisfero (in quello sud la settimana di preghiera si celebra a Pentecoste) tutte le Chiese tradizionali stanno vivendo una crisi di cui solo la Speranza lascia intravvedere una luce. I cammini ecumenici che hanno accompagnato il pre ed il post Concilio Vaticano II hanno subito una o più battute d’arresto di fronte ai conflitti che stanno insanguinando i nostri popoli. Ma soprattutto le guerre e le loro implicanze religiose hanno fatto cadere quel buonismo che cantava De André: “… credevano a un altro diverso da te e non mi hanno fatto del male”. Hanno fatto emergere cioè problemi nuovi che hanno svegliato contrasti sopiti e reso meno ingenuo il reciproco approccio. In fondo è emerso quanto diversi siano nelle comunità cristiane i modi di vedere la Chiesa ed il suo rapporto con il mondo. Difendere il bagaglio di conoscenza, di credenze e di tradizioni maturato nei secoli o metterlo in discussione di fronte alle nuove sfide, tenendo ciò che è “di fede” e relativizzando tutto il resto? Sono posizioni che dividono tra di loro, ma anche al loro interno, le Chiese occidentali tanto quanto quelle orientali, fino a spingere qualcuno a giustificare indebitamente l’uso della forza pur di mantenere intatto il patrimonio di valori acquisito. Ritornare a quella Chiesa “una, santa, cattolica (nel senso di universale), apostolica” è un atto di fede ed è un nuovo cammino ecumenico che si apre.
In fondo il credo di Nicea (integrato poi a Costantinopoli) rappresenta la “costituzione” del cristianesimo ed ogni costituzione è la base della convivenza sociale. Eppure – come succede anche per la società civile – le nostre Chiese sono alle prese con correnti religiose che non si basano più su quel Credo. Sono sètte e correnti evangelicali, che pur rifacendosi al vangelo, non condividono tutti i cardini della fede. Inoltre molti, che continuano a dirsi cristiani, seguono una religione “fai da te” o il santone che la propone. Ed è difficile dialogare con queste nuove forme di cristianesimo, spesso radicalizzate e intolleranti, perché manca “una costituzione”. Manca quel “Credo” che la Chiesa dei primi secoli a cominciare da Nicea ha formulato, non senza lunghe vicende travagliate e sofferte.
Ritrovare l’unità delle Chiese che si rifanno a quel Credo, è perciò oggi quanto mai urgente. Non esiste vero dialogo senza una base chiara e definita di entrambe le parti. Questo vale in tutti i contesti, anche a livello interpersonale. Così è importante che le Chiese cristiane che accettano integralmente quel Credo rinsaldino l’unità nella fede. Messe le basi, è possibile guardare il mondo con fiducia e speranza sapendo che lo Spirito Santo fa cadere di volta in volta gli orpelli che ci costruiamo nel tempo e traccia cammini sempre nuovi nella storia. Solo con questa chiarezza si può fare oggi un cammino di dialogo schietto, rispettoso e senza pregiudizi. Non è solo un atto di fede, ma un impegno di fede, capace di rispondere come Marta al “Credi tu questo?” di Gesù, per testimoniare nel mondo un messaggio evangelico condiviso e credibile.