Le coraggiose denunce di Patrik Zaki
Quello che spesso non si dice sul giornalista egiziano

Fra le tante notizie controverse e deprimenti di questa estate vorrei riflettere su una molto positiva: il ritorno in Italia di Patrick Zaki che, dopo la condanna in Egitto, ha ottenuto la grazia anche per merito della mediazione del Governo italiano. Lasciamo da parte la pretestuosa polemica dell’aereo su cui si è imbarcato e andiamo invece alla sostanza della questione.
Zaki è un giornalista coraggioso e mi riempie d’orgoglio poterlo chiamare collega. Ben altra cosa della schiera nostrana dei politicamente corretti che si autoincensano nell’attaccare (anche scompostamente) il “potere”: lo fanno tutti, spalleggiandosi a vicenda, facendo le liste di proscrizione verso i renitenti, e lo fanno con ben poco coraggio visto che sono in piena sintonia con i loro editori senza rischiare neppure con le querele: l’Ordine e i Giudici sono pronti ad assolverli.
Zaki, in un Paese profondamente islamico, ha avuto il coraggio di dissociarsi dal più pericoloso dei poteri, quello serpeggiante dei “Fratelli Musulmani” (si può rischiare la vita per questo) ma principalmente ha chiamato in causa le responsabilità del Governo (che vive una sorta di tregua armata coi Fratelli Musulmani) per le persecuzioni a cui sono sottoposti i cristiani Copti, la più antica comunità religiosa di quel Paese. Anzi, ormai i funzionari egiziani sono più estremisti della “Fratellanza”.
Probabilmente Al Sisi porta avanti questa politica proprio per tenere buoni i “Fratelli”, ma questo tipo di persecuzioni sono una costante antica in Egitto. Leggendo l’articolo incriminato mi sono sorpreso a cogliere la corrispondenza con vari miei articoli che in quello stesso anno (e anche in precedenza) avevo scritto con varie analisi sull’Islam (ovviamente, al contrario di Zaki, non correvo pericolo alcuno, salvo gli attacchi dei soliti sinistri che mi bollavano come razzista anti islamico e divulgatore di notizie esagerate e non vere). In uno in particolare avevo riportato anche le parole di un mio amico copto, letteralmente costretto a fuggire dall’Egitto abbandonando gli studi per fare il pizzaiolo in Italia, Paese che non gli ha ancora conferito la cittadinanza. Il mio amico mi aveva raccontato la difficile vita dei copti. Suo zio farmacista, ad esempio, era stato costretto a chiudere la farmacia per le persecuzioni della Fratellanza (da una parte) e del Governo (dall’altra).
L’articolo per cui Zaki è finito in carcere ed è stato condannato per “diffusione di notizie false” è del 2019 e riporta anche alcune delle vicende a cui mi riferivo. Ho trovato sul web l’articolo incriminato, che, però, non mi pare sia stato pubblicato integralmente in Italia, cosa che, invece, avrebbe dovuto avvenire ogni volta che si parlava della vicenda di Zaki evidenziando la difficile situazione dei cristiani nei Paesi islamici. Ecco come Zaki inizia il suo pezzo.
“Questo articolo è un semplice tentativo di seguire gli eventi di una settimana della vita quotidiana di cristiani egiziani. Non passa un mese per i cristiani in Egitto senza 8 o 10 incidenti dolorosi, dai tentativi di sfollarli nell’alto Egitto, ai rapimenti, alla chiusura di una chiesa o qualcosa che viene fatto saltare in aria, all’uccisione di un cristiano, la conclusione è sempre disturbo mentale”.
Infatti – come scrivevo a mia volta quell’anno - le persecuzioni dei Copti, da parte principalmente dei Fratelli Musulmani (ma, come scrive Zaki, anche dal Governo), sono continue, viene loro impedito di proseguire gli studi, è proibita la manutenzione delle chiese (che quindi crollano), le attività commerciali dei Copti vengono danneggiate.
Zaki fornisce anche importanti chiavi di lettura sul mondo islamico riportando una frase di Muhammad Hassan, un ex avvocato per i diritti umani: “Dato che l’Egitto è dimora dell’Islam, il dhimmi (non-musulmano) paga le jizya (tasse) per poter svolgere i suoi affari”. Insomma semplicemente per poter lavorare. Si tratta dell’antica “Dhimma” che ancora oggi è in vigore in Islam e su cui avevo scritto un lungo approfondimento storico e teologico.
Nell’articolo il giovane racconta sostanzialmente una settimana di angherie subite dai cristiani, a partire dalla mancata intitolazione di una scuola ad un soldato Copto caduto in battaglia, onore che, invece, era stato attribuito agli altri caduti islamici nel medesimo agguato.
“Infatti – scrive - si è diffusa la notizia dell’insorgere di gravi problemi nel paese natale del soldato, Abanoub Marzouk, al cui nome le forze armate avevano deciso di intitolare una scuola: la gente della città si era opposta con decisione perché il soldato era un “cristiano”. Ishaq Ibrahim, un ricercatore dell’Egyptian Initiative for Personal Rights, ha commentato su Facebook. “Quelli che hanno rifiutato di intitolare ad Abanoub una scuola non appartengono ai Fratelli musulmani, non sono salafiti, non sono estremisti o altro. Abbiate il coraggio di dire che è stato un pubblico funzionario che ha preso questa decisione lasciandosi influenzare dai suoi pregiudizi. Qualsiasi tentativo di addossare la colpa a gruppi religiosi è un modo per annacquare le proprie responsabilità”.
Quindi Zaki parla delle ingiustizie verso le donne a proposito dell’eredità (nonostante la legge la ricevono dimezzata, rispetto ai maschi) e delle discriminazioni di fronte alla legge dei cristiani la cui testimonianza non ha valore legale in un processo rispetto a quella di un musulmano.
A questo proposito l’articolo rileva anche varie incongruenze nella legislazione egiziana fra Costituzione e shari’a, che alla fine causano costantemente ingiustizie.
“In un post – scrive Zaki - diffuso ampiamente su Facebook, si racconta che cosa è successo al padre del dottor Mark Estefanos e degli insulti che ha ricevuto in tribunale. Questo dopo una lunga vicenda del padre, un ingegnere che ha lavorato in un’istituzione pubblica per 35 anni. Il padre doveva presentarsi in tribunale per testimoniare di fronte al giudice su un caso riguardante un collega, ma il giudice ha rifiutato la deposizione dell’ingegner Makarios perché cristiano. «Non c’è tutela legale per un copto rispetto a un musulmano». Il padre e suo figlio, un medico, sono rimasti estremamente turbati e quest’ultimo ha pubblicato il post, sottolineando che episodi così lo inducono sempre a pensare di andarsene dall’Egitto, perché non gode degli stessi diritti degli altri”.
Insomma un articolo del genere è un bomba contro Al Sisi perché dimostra la sua connivenza con la Fratellanza che, ufficialmente, lui dice di “contenere” e palesa la sostanziale segregazione della comunità cristiana nei fatti, nonostante il dettato costituzionale. Ma dimostra anche il coraggio e l’imparzialità di un giovane giornalista che, giustamente, viene acclamato in Italia senza, però, conoscerne bene la produzione. “Benvenuto fra noi, Patrik”.
Claudio Bo